Questo articolo è stato scritto da Francesco Pattacini di Beeer Mag, tutte le foto sono di Lorenzo Pasquinelli. More on Beeer Mag (www.beeermag.it).

Ci possono essere le leggendarie imprese di San Patrizio e di Roy Keane, i campi immensi, i periodi allucinati di James Joyce ma poco descrive lo spirito e la magia irlandese come una pinta di birra nerissima. Che siano Stout old school o densissime Porter attraverso cui è impossibile guardare attraverso (senza dimenticare le Red Ale), al loro interno si incrociano continuamente i segreti del passato, i misteri tramandati ogni giorno sui banconi della grigia Dublino e le leggende che verranno narrate una volta finiti i bicchieri. Dimenticatevi per un attimo allora di tutte le evoluzioni, dei nuovi termini, della pastry-fever e tutte le derivazioni postmoderne che non contemplino solo orzo, avena, lievito, luppoli sinceri e tostature dai sentori alcalini e di caffè. In Irlanda Stout e Porter sono la sacra famiglia di questa religione che accomuna ogni paese bevitore e, cioè, l’estrema fedeltà a gusti netti come solo una tradizione sa essere, drinkability first, direbbe qualcuno (sia nel senso di bevibilità della birra che in quello di una leggendaria capacità irlandese nel farlo).

Ma se pensate che l’Irlanda si fermi qui, a ricette secolari mai mutate, vi sbagliate di grosso. Il bello delle leggende è che ogni generazione aggiunge una parte tutta propria, un nuovo aneddoto in cui tradizione e modernità si fondono e danno il via a una mini rivoluzione. Brehon Brewhouse, Brù Brewery e WHIPLASH, rappresentano questo particolare mondo irlandese di intendere la birra, partendo da una solida base tradizionale per poi aggiungere sempre nuove evoluzioni.

Fotografie: Lorenzo Pasquinelli

Brehon Brewhouse, una questione di famiglia

Dicevamo della tradizione, del profondo legame fra birra e Irlanda. Il loro matrimonio, in fondo risale al basso medioevo, periodo magico in cui l’homebrewing viene reso libero e legale in ogni casa del reame dalle Brehon Laws. Le ricette non si diffondono attraverso libretti fotocopiati di Charlie Papazian come negli USA del ‘78, ma si sedimentano nelle famiglie e passano di generazione in generazione. È questa la strada che segue Séamus McMahon quando, nel 2014, decide di convertire parte della fattoria e del caseificio di famiglia in microbirrificio, creando Brehon Brewhouse proprio per celebrare e trasformare ancora una volta la storia dei McMahon.

Questa fedeltà al territorio e alle proprie mitologie famigliari si condensa in una produzione ristretta che si esalta nell’incontro del classico, contando principalmente sull’autoproduzione delle materie prime che vanno a comporre le cinque proposte Blonde, Red Ale, Oatmeal Stout, Porter e IPA. Sinceri, raccolti sulla propria terra, per Séamus ogni cosa deve sviluppare questo legame profondo con le origini, si tratti dell’acqua, del malto o del barrel aging in botti di whisky. All for and by the environment, dice quando ci racconta la storia del birrificio: «La nostra famiglia coltiva queste terre da generazioni, è da qui che veniamo e in cui vogliamo continuare a produrre le nostre birre. Siamo molto orgogliosi di ciò che ci circonda e del nostro patrimonio e, attraverso le birre, raccontiamo le storie della nostra famiglia sia presenti che future».

Se cercate un racconto sincero e dai tratti working class la tappa nella Contea di Monaghan diventa quasi obbligata. Comprenderete allora perché la scorrevolezza della Shanco Dubh Porter sa essere così diretta e perché quel tipico spunto amarognolo di caffè sia da sempre un dopo lavoro perfetto, perché le note leggermente nocciolate della Killanny Red Ale siano il biglietto di ingresso per ripercorrere le generazioni della famiglia McMehon: «The final ingredient is time. No rush. All done at the correct pace. So that the stout king Séamus can be satisfied». E chi siamo noi per dire no al king of stouts?

Fotografie Lorenzo Pasquinelli

La prima new wave di BRÙ Brewery

«In Irlanda ho imparato in maniera diretta quanto la bevibilità di una birra e la possibilità di farlo con facilità senza appesantire siano fra le caratteristiche più importanti fra tutte. Per questo motivo era importante per noi avere una linea forte e chiara che potesse accompagnare e, perché no, introdurre ai bevitori Urban Jungle, la linea che ci ha permesso invece di aggiungere più creatività e un approccio moderno.»

BRÙ Brewery è un buon esempio per comprendere la fase di transizione portata dalla prima new wave a metà anni ’10 nella birra artigianale irlandese. Un equilibrio continuo fra tradizione e una spinta più innovativa che rappresenta perfettamente la joint venture che vede due realtà già storiche del movimento della terra di San Patrizio, BRÙ e Carrig, unire le forze nel 2020, rivisitando le proprie ricette e dandosi una prospettiva tutta nuova sotto un nome comune fra le contee di Meith e Leitrim.

Come ci raccontava Francesco Sottomano, in Irlanda dal 2017 proprio dove inizia a lavorare come mastro birraio per Carrig, il filo continuo della drinkability rimane un presupposto fondamentale nella concezione della loro linea: «Mostrare i molteplici volti della produzione», continua Francesco, «È sicuramente un aspetto cruciale per BRÚ Brewery. La tradizione della birra qui in Irlanda è molto forte e, per questo, è ancora più determinante presentare una certa varietà di elementi che si sappiano distinguere per il loro gusto. Per preparare le ricette cerchiamo di usare tipi diversi di malti, di ragionare sulle combo di luppoli cercando di accompagnare al tradizionale le nuove possibilità mentre cerchiamo di dare un tono sempre più leggero ai lieviti per ottenere una fermentazione pulita che renda sempre semplice la bevuta».

Da questo nucleo nascono le Stout della linea tradizionale, sottilmente cioccolatose e con un corpo esile e una schiuma avorio e abbondante, così come per la IPA vecchio stampo – poche chiacchiere e profumi, amarezza balsamica e concentrata –, che aprono la strada alle più ardite sperimentazioni della linea Urban Jungle, libera di svariare in ogni direzione, accostando luppoli, lieviti e malti di nuova provenienza che contraddistinguono la freschezza e il profumo di Tutti Frutti, Tropical Pale Ale densa e succosa con un concentrato di frutta tropicale e una leggera amarezza sul palato. Black Country, New Roads.

Fotografie Lorenzo Pasquinelli

Dal futuro e ritorno: Whiplash

Quando parlavamo di tradizione a questo ci riferivamo. A un continuo fermento e alle continue trasformazioni che, sì, devono fare i conti con la sacralità di certi stili ma che, invece di vederci un limite, trovano un’opportunità per fare la differenza e creare uno spazio tutto proprio. È un po’ il motivo che ha portato Alex Lawes e Alan Wolfe, entrambi impegnati da Rye River Brewing Company, a cominciare a produrre qualche shot di birra nei weekend del 2016 e a dare vita a Whiplash che, oggi, è uno dei punti di riferimento delle nuove fermentazioni made in Ireland.

In poco meno di un anno, dopo le corse per noleggiare ogni tank disponibile nella zona di Dublino, Whiplash sorprende tutti per un approccio inedito nell’avvicinarsi alla produzione della birra, che sia su stili tradizionali, rinnovando la Porter attraverso poteri epifanici, o sfidare le leggi delle luppolature e degli equilibri delle Double IPA. È questo senso di avventura che li porta a girare l’Europa su per creare mini shot o diventare cult per i bevitori nei festival craft e, nel 2019, dopo aver lasciato il lavoro, dare una casa ufficiale a Whiplash. Un percorso tutt’altro che semplice, come raccontato su Pellicle, ma che ha permesso a Whiplash di definire la propria identità, con un tocco preciso in fatto di ricerca (dagli ingredienti alle singole etichette disegnate da Sophie De Vere) e dare vita a questa loro parte di tradizione.

Dal futuro dell’hazy più spinto, che non bada ai freni in ogni possibilità di dispiegare ogni singolo potenziale gusto dei luppoli e delle combinazioni citrousy della Body Riddle – Pale Ale aliena -, e poi ritorno, come in The Sup, Porter di ultima generazione e di definitiva acclamazione.